Vendite online e digital tax: a che punto siamo?
La proposta del Pillar One dell’OCSE, presentata in occasione del G20 di Riyad, è ancora materia di discussione per la comunità internazionale. Il consenso delle parti coinvolte c’è, ma manca un accordo finale in merito alla digital/web tax. Cosa è stato fatto finora? Perché si rimanda ancora? Ecco gli aggiornamenti e i dettagli che interessano anche chi vende online in Europa.
Digital tax e Pillar One OCSE: c’è consenso, ma manca un accordo
La crescita dell’economia digitale ha rivoluzionato il panorama dell’economia globale.
In questi anni, ogni Stato ha dovuto fare i conti con l’adattamento delle proprie politiche fiscali al fine di internazionalizzare le strutture finanziarie e provvedere alla tassazione delle crescenti operazioni transfrontaliere.
Nonostante ciò, ad oggi, non esiste una politica fiscale unitaria e globale, che consenta di tassare allo stesso modo le società tecnologiche a fronte dei ricavi maturati in territori diversi dal luogo in cui sorge la loro stabile organizzazione. Ciò provoca talvolta fenomeni di evasione fiscale, di controversie – come la doppia imposizione – e di elusione fiscale.
Ecco perché l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) avanza la proposta del Pillar One, per la riallocazione dei profitti e del corrispondente gettito fiscale nei paesi e nelle giurisdizioni in cui si trovano i mercati delle multinazionali e i loro clienti.
Pillar One: cosa è stato fatto finora e perché si rimanda ancora
A fine gennaio 2019, in occasione della riunione dell’OCSE – G20 viene firmato l’accordo « Addressing the Tax challenges of The Digitalisation of The Economy » volto alla definizione di una soluzione unitaria e definitiva per la tassazione delle società della digital economy.
Dopo diversi lavori preliminari e l’esposizione della proposta a Washington nell’ottobre 2019, le speranze per la definizione di uno schema di tassazione unitario vengono inizialmente poste nel G20 di Riyad, tenutosi il 22 e il 23 febbraio 2020 in Arabia Saudita.
Durante l’incontro, tutte le parti coinvolte hanno espresso il loro consenso formale a procedere, senza arrivare però ad una soluzione condivisa.
Cosa è accaduto poi?
Gli Stati Uniti, terra madre dell’88% delle società tecnologiche, hanno definito l’accordo discriminatorio per le società statunitensi ed hanno avanzato il safe harbor come controproposta.
L’Europa, invece, favorevole alla proposta dell’OCSE, in un primo momento ha annunciato di voler andare avanti e concludere entro dicembre 2020, oggi però manifesta la necessità di posticipare il tutto a metà 2021.
Di recente, infatti, l’OCSE ha presentato un rapporto che conferma l’intenzionalità a procedere della comunità internazionale per la definizione di uno schema unico per la tassazione dei servizi digitali. Ciò che ostacola però l’avanzamento dei lavori è l’emergenza sanitaria. La comunità internazionale è impegnata a combattere contro il Coronavirus e rimanda tutto al prossimo anno.
Pertanto, si continuerà a negoziare, con la speranza di arrivare presto ad un accordo.
Safe harbor: il principio dell’approdo sicuro spunta anche in materia fiscale
Safe harbor significa letteralmente ‘approdo sicuro’; una terminologia anglosassone che nella scienza giuridica identifica una norma o un principio giurisprudenziale che consente di violare una regola più generale.
Nel 2000 questo termine è stato utilizzato per distinguere l’accordo siglato tra l’UE e gli Stati Uniti, per definire le modalità che le società americane dovevano adottare per far sì che si verificasse il passaggio dei dati personali dei cittadini europei in America.
Questo consentiva alle società americane di mettersi al riparo in materia di violazione della privacy.
Per effetto della sentenza Schrems della Corte di Giustizia UE, oggi quest’accordo è nullo, ma il nome safe harbor continua ad essere usato da alcuni esponenti politici americani. Stever Mnuchin, segretario del tesoro statunitense, parla di un safe harbor proprio in occasione del G20 di Riyad, annunciando di avere una norma ad hoc per proteggere le società americane dall’eventuale approvazione della digital tax. Una legge che consentirebbe alle società tecnologiche di evitare di pagare le tasse nei paesi esteri scegliendo il sistema di tassazione fiscale che preferiscono.
Società tecnologiche e vendite online: un gettito fiscale imponente
Oggi le società tecnologiche che vendono online beni o servizi mediante l’uso di piattaforme digitali sono tenute a versare quanto richiesto nel paese in cui sorge la loro stabile organizzazione a fronte dei guadagni maturati. Per le vendite all’estero – e dunque a fronte dei guadagni maturati altrove – queste società devono invece rispettare politiche fiscali diverse e versare determinate somme al superamento di soglie di fatturato nazionali.
Talvolta, grazie ad alcuni cavilli legislativi, gran parte del loro utile viene spostato in paesi a fiscalità agevolata generando una perdita fiscale per gli Stati esteri in cui si registrano le vendite.
Tutte queste società sono interessate dalla digital tax globale; si tratta di grandi colossi del web che negli anni hanno subito diverse denunce, prima pubbliche e poi istituzionali. L’accusa mossa nei loro confronti è quella di utilizzo di strutture legali complesse e licenze e/o diritti di proprietà intellettuale per limitare i loro pagamenti fiscali in modo elusivo e illecito.
La digital tax e l’Europa
Intanto che si giunga ad un sistema di tassazione unitario, l’Unione Europea e i diversi paesi membri hanno scelto di pronunciarsi e di cominciare a muoversi.
La Francia tassa del 3% i ricavi delle società con 750 milioni di euro di fatturato globale e un ricavo pari a 25 milioni di euro per vendite digitali effettuate nei confini francesi. Stessa aliquota anche per l’Italia, che tassa del 3% i ricavi generati da società estere aventi un fatturato globale pari ad almeno 750 milioni di euro e ricavi pari ad almeno 5,5 milioni di euro per vendite digitali. Un regime che si applica nel 2021 per i ricavi del 2020.
L’Italia è pronta a mantenere in vigore questo sistema fino al raggiungimento di un accordo internazionale in materia di tassazione delle digital companies.
La Turchia ha dato il via libera per una digital tax nazionale con un tasso pari al 7,5%. Nel Regno Unito la nuova legislazione imporrebbe un prelievo pari al 2% sui ricavi dei motori di ricerca, sulle piattaforme di social media e sulle compravendite online.
Austria, Spagna e Belgio stanno elaborando nuove strategie per una digital tax nazionale e la Lettonia si è espressa favorevole a tale cambiamento.
Vendi beni o servizi online in Europa? Scrivici.
Fino all’approvazione definitiva di un sistema di tassazione unitario tutte le società interessate dalla vendita di beni o servizi online in Europa, anche mediante piattaforme digitali, devono continuare a rispettare le norme fiscali, le soglie di fatturato nazionali e adempiere ai versamenti dell’Iva attraverso il procedimento dell’identificazione diretta o la nomina del rappresentante fiscale.
Grazie al nostro team di esperti in fiscalità internazionale e rappresentanza fiscale assicuriamo ai nostri clienti assistenza in tutta Europa. Se vuoi saperne di più compila il form e ricevi una prima consulenza gratuita.